mercoledì 7 agosto 2013

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[precede] abusi compiuti e perpetuati [“perpetuated” – forse voleva dire “perpetrated = perpetrati”] dal governo e dai suoi membri – quelli al potere nella comunità diedero il benvenuto a quest’attenzione e fecero del loro meglio per collaborare. Inutile dire, questa collaborazione richiedeva il fornire al governo ed ai media nient’altro che opinioni, identità e facce gradevoli all’interno della comunità LGBTQ. Chiunque fosse troppo radicale, troppo arrabbiato e risentito, troppo visibilmente frocio o trans, o dalla pelle troppo scura, troppo effemminato, troppo disabile, ecc. fu discretamente rimosso dall’attenzione pubblica e dall’occhio dei media. [Nota 47]

Due ulteriori risposte disturbanti alla sparatoria furono il militarismo e l’LGBT-fobia interiorizzata. Il discorso militarista del “Non abbiamo paura (dei nostri “nemici”) aveva leso le nostre orecchie ed i nostri cuori, mentre le persone della comunità stavano lottando per uno spazio che contenesse la moltitudine di emozioni, tristezza e lutto che usciva da noi. Molti di noi erano profondamente ansiosi, alcuni soffrivano di stress post-traumatico. Molti non si sentivano abbastanza sicuri da uscire di casa senza essere accompagnati. Noi eravamo tristi ed impauriiti, ed il tentativo militarista e patriarcale di azzittire la nostra tristezza e le nostre emozioni ci rendeva frustrati, arrabbiati e depressi. Inoltre, dal momento in cui avvenne la sparatoria, delle figure di punta della comunità GGGG (da notare tra essi il personaggio pubblico bifobico, transfobico, sessista e gay Gal Uchovsky) si erano assunte il compito di dar la colpa alla comunità stessa – accusando i “casi da armadio [“closet cases”]” di essere i responsabili dell’LGBT-fobia e dell’ostracismo sociale patito dalle persone LGBTQ. Un articolo particolarmente famigerato fu pubblicato da GoGay dal regista pornografico ebreo americano e gay Michael Lucas, dal titolo “Una lettera ai vigliacchi e spregevoli casi da armadio”, incolpando della sparatoria gli uomini bisessuali ed altri “casi da armadio”.

Tutte queste cose le sentivamo molto mentre eravamo impegnati nella riunione. L’atmosfera era tesa, sapevamo che sarebbe stata dura – i rapporti di potere che eravamo già tanto abituati a combattere dentro la comunità erano saliti ad un volume che ci fece capire che sarebbe stata intensa. Ma, onestamente, nulla ci preparò per quello che accadde poi.

All’inizio della riunione, un gruppo di attiviste femministe lesbiche tentò di impadronirsi dell’incontro, un’azione che fui incredibilmente contenta – seppur impaurita – di vedere. Dacché Yaniv Waizman (che aveva convocato l’incontro) era in ritardo, le donne iniziarono l’incontro senza di lui. Venendo all’incontro temendo di non avere chance di parlare ed essere udita, mi sentii immediatamente sollevata quando l’attivista femminista lesbica Yaara Chotzen si alzò in piedi ed inziò a condurre l’incontro, affermando che sarebbe stato tenuto usando metodi femministi ed assicurandosi che ognuno sarebbe stato udito.

Quello che però seguì fu un clamore tra le persone presenti, che a quanto pare non aspettavano altro che arrivasse il ‘possente leader’ a rimettere le ragazzine al loro posto. Durante l’incontro, e dal momento in cui arrivò Waizman, noi fummo prima riprese, e poi azzittite con sempre maggior forza. La riunione saltò e si interruppe a metà su questioni di potere, rappresentazione e parola: chi aveva il potere di determinare [segue]

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